ESTRATTI DA: http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/ingroia-spernacchiato-da-perna-la-quintessenza-dell-opaco-al-telefono-con-lappaltatore-aiello-legato-50004.htm
Il cinquantatreenne ex pm si autoproclama da sempre allievo prediletto di Paolo Borsellino. Agli esordi, fu effettivamente uno dei suoi sostituiti alla procura di Marsala. Non risulta però avessero legami speciali. Tra loro, c'era solo la simpatica atmosfera che un uomo ironico come Borsellino creava tra i colleghi.
Negli ultimi anni, Ingroia aveva trovato un confidente che gli andava a fagiolo: Massimo Ciancimino, figlio del mammasantissima Don Vito. Il giovanotto diceva qualsiasi cosa, consentendo al pm di incriminare a man bassa. Dalle inchieste entrava e usciva l'universo mondo, perfino il Cav e FI accusati di essere referenti delle coppole (di qui la class action dei lettori del Giornale).
Ingroia, euforico, definì Ciancimino jr «quasi un'icona antimafia». Il giocattolo si ruppe nel 2010 quando il giovanotto disse una balla imprudente su Gianni De Gennaro, l'intoccabile ex capo della polizia. A stretto giro, il bluff Ciancimino si sgonfiò. Si scoprì che aveva falsificato documenti, che teneva esplosivo in casa e nascondeva un tesoro in Romania. La bufera costrinse Ingroia, la coda tra le gambe, a incarcerare il suo protetto e, nel luglio 2012, a incriminare per mafia (concorso esterno) colui che aveva definito icona dell'antimafia.
Non è la sola leggerezza del nostro eroe che si precipita ovunque possa apparire. E inciampa come un bietolone. È accaduto con due procedimenti archeologici che si è incapricciato ad aprire. Con uno, accusò Totò Riina, da anni all'ergastolo, di avere ucciso Mauro De Mauro misteriosamente scomparso nel 1970. Ma fece fiasco con le prove e Riina per la prima volta in vita sua fu assolto.
La seconda farneticazione è del 2010. Ingroia si ficcò in capo che il bandito Giuliano anziché essere ucciso nel '50 era fuggito e al suo posto era stato sepolto un altro. Fece perciò riesumare il corpo per le analisi, passando giorni in tv a pavoneggiarsi. Nel gennaio di quest'anno è stato confermato che il Dna è quello di Giuliano. Fine della sceneggiata. Piacerebbe sapere quanto è costata.
Nel 2003 gli capitò una cosa sciocca ma che a un altro sarebbe valso un mare di guai, specie tra gli artigli di Ingroia. Dovendo ristrutturare la casa del padre, il pm si rivolse a tale Michele Aiello, appaltatore legato al boss Provenzano. Tra loro ci fu pure una telefonata in cui Ingroia, parlando di costi dei lavori si sentì rispondere: «Tranquillo dottore, ci pensiamo noi». Il colloquio fu intercettato ma senza conseguenze. Eppure fu proprio per la dimestichezza con quel tale Aiello che cominciarono le disgrazie di Totò Cuffaro, tuttora in carcere. Misteri siciliani.
Ingroia non è, ahi lui, un mostro di cordialità. Parlo da telespettatore. Ha l'aspetto polveroso e il tono beffardo. Fa le pulci a tutti e denigra, utilizzando conoscenze che gli derivano dalle inchieste («Dell'Utri non dice tutto quello che sa»), senza un briciolo di riservatezza. Si crede l'incarnazione della moralità al punto che ti viene da gridare al teleschermo: «Ma ci faccia il piacere».

Poi ci sono gli inevitabili sconcerti di quando un magistrato entra in politica. Tolta la maschera, Ingroia si è confermato un sinistro al cubo. Viene allora spontaneo pensare che abbia incriminato il generale Mori, Dell'Utri, Mannino, Mancino, eccetera, per scelta politica e non per serena riflessione. Lo sapevamo, è vero, da anni. Però ci toccava tenercelo nel gozzo in assenza di prove.


L'unica speranza è un provvedimento che vieti finalmente il pendolarismo dei magistrati. Sempre che una legge sia una remora per un tipo peperino come Ingroia che delle regole se ne impipa. Tant'è che si è candidato a Palermo - dove era procuratore aggiunto - contro la norma che vieta alle toghe di presentarsi nel luogo in cui esercitano la giurisdizione (è l'inghippo che indignò Alessandro Sallusti nel battibecco tv).
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